venerdì 16 aprile 2010

I giardini del Paradiso. Storia degli Horti vaticani e dei Papi che li vollero

I giardini del Paradiso. Storia degli Horti vaticani e dei Papi che li vollero
Lilli Garrone
CORRIERE DELLA SERA 3 apr 2010 Roma

Il più antico giardino di Roma, ancor oggi rigoglioso, è qui: nei 22 ettari di verde dello Stato del Vaticano, dove si alternano fontane e boschetti, monumenti e panorami. È il «viridarium» , documentato fin dal Duecento all’interno della cinta muraria fatta edificare da Leone IV, primo di una complessa stratificazione di fasi costruttive molto diverse tra loro, secondo l’evoluzione del gusto e della personalità dei pontefici. Contrariamente, infatti, a quanto accade per le ville storiche della capitale dove gli eredi mirarono a proseguire l’opera degli avi – un esempio è villa Borghese - i Papi volevano lasciare un segno individuale del proprio passaggio, variando, a volte bruscamente i progetti iniziali.
Il volume Di Alberta Campitelli «Gli Horti dei Papi, i Giardini vaticani dal medioevo al novecento» (Jaca Book -pagine 348) è illustrato con foto, disegni e cartine d’epoca

Colpi di scena e cambi di paesaggi raccontati nel libro di Alberta Campitelli «Gli Horti dei Papi, i Giardini vaticani dal medioevo al novecento» (Jaca Book-pagine 348), dove la direttrice delle Ville e parchi storici della Sovrintendenza del Comune, racconta quanto è accaduto a questo verde nascosto: dall’Orto Botanico, impiantato accanto la Casina di Pio IV nel 1561 e smantellato nel 1659, quando Alessandro VII lo trasferì al Gianicolo, alla distruzione del pergolato del giardino segreto di Paolo III, alla sostituzione del rustico fondale della Fontana della Galera su ispirazione del Vignola con una parete a finto bugnato. Le pagine scorrono in un susseguirsi di foto, immagini e piante storiche, con disegni d’epoca che fanno rivivere quanto gli architetti del paesaggio hanno saputo produrre per la meraviglia dello sguardo. Strettamente connessi con lo sviluppo della basilica di San Pietro, i giardini vaticani vengono fatti risalire all’opera del cardinale Giovanni Gaetano Orsini, uomo di grande cultura ed esperto di piante medicinali. Divenuto Papa col nome di Niccolò III stabilì la propria residenza in Vaticano e nei tre anni del suo pontificato acquistò numerosi terreni e vigne, e «in questo quadro non poteva mancare un giardino – scrive Alberta Campitelli – quale richiamo al paradiso e quale raffigurazione in terra della Vergine Maria e delle sue virtù, con la presenza imprescindibile dell’acqua, elemento di vita e di salvezza». Ecco dunque il «viridarium», cinto da mura secondo l’uso medievale, in genere con un frutteto e con un Orto dei Semplici, ovvero la coltivazione di piante medicinali, e un orto botanico, uno dei primi della penisola.

Molte le cronache e i documenti inediti: Bonifacio IX usava potare le viti in prima persona e Niccolò V, come rivela la biografia di Giannozzo Manetti volle «un grande e splendido giardino, ricco di ogni genere di erbe e frutti e irrigato d’acqua perenne che il pontefice aveva portato fin lì con grandi spese». Nel libro si ripercorre anche la nascita del Belvedere di Innocenzo VIII e del cortile-teatro-giardino di Giulio II e Donato Bramante, il primo architettonico con terrazzamenti, aiuole simmetriche e fontane. Si conoscono i segreti di quello di Paolo III, con l’intervento di Jacopo Meneghino o i particolari della Casina di Pio IV, delle fontane seicentesche di Paolo V, con il suo «giardiniere» d’eccezione Johannes Faber, grazie al cui estro i giardini assumono la configurazione destinata a rimanere pressoché immutata nei secoli successivi. Almeno fino all’attuale e moderna immagine di città-stato, con i lavori che dal 1930 in poi trasformarono 13 ettari a vigna e orto nel monumentale verde di oggi, dagli ampi viali e dalle scenografiche prospettive, con la fontana della conchiglia o della navicella, con le aiuole simmetriche delimitate da basse siepi di bosso, con cedri, cipressi, palme, abeti e pini. L’ultimo capitolo è dedicato alla villa pontificia di Castel Gandolfo con il suo «singolare ed armonioso – conclude l’autrice – insieme di «flora et ruine» con gelsomini e rose che si arrampicano sugli antichi massi per ricreare con architetture vegetali quelle in pietra ormai perdute».

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